"THE END"

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domenica 8 giugno 2014

un mestiere di merda

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Sapevo che non si poteva dire, specialmente a mio padre che mi avrebbe ucciso di mazzate. Ero consapevole che era difficile, che bisognava impegnarsi, che non era una cosa per tutti, che ci voleva stomaco, coraggio, ma anche io avevo il mio sogno di ragazzo, la cosa per la quale non dormivo la notte, che cercavo di imparare guardando in silenzio come si comportavano mio zio e i miei due cugini e riprovando da solo le loro mosse.
Io da grande volevo fare il camorrista.
A quattordici anni mio cugino L. già si faceva chiamare Luis. Era luglio e stavamo passeggiando insieme sul lungomare della mia città con i nostri pantaloni a zampa d’elefante e le camice dal collo enorme aperte quasi fino all’ombelico. Io e lui a quel tempo ci somigliavamo così tanto che la gente ci prendeva per gemelli e qualcuno ci scherzava pure. Quella volta Tanino, che era un amico nostro, ci scherzò un po’ pesante dicendo che, forse, avevamo lo stesso padre senza saperlo. Io ci rimasi una merda perché mi bruciava lo sgarro, ma Luis si mise a ridere e per tutta la sera scherzò con Tanino e gli offrì pure il gelato. Poi, quando uscimmo dal Diana dove eravamo entrati con i biglietti omaggio di Luis, decidemmo di fumarci una sigaretta nei Giardini Vecchi, vicino alla fontanella che anche d’estate aveva l’acqua fresca. Era quasi mezzanotte e allora quello era un parco malfamato, non c’era quasi nessuno. Così, mentre Tanino si stava accendendo la sua sigaretta, Luis gli diede un cazzotto a fermo, nel pieno della faccia. Tanino cadde a terra senza dire una parola e io e Luis lo incominciammo a prendere a calci nella pancia e nella faccia. Continuammo fino a quando non perse i sensi e il sangue iniziò a uscirgli dal naso e dalla bocca. Allora Luis gli stese un braccio, gli aprì la mano destra e col tacco della scarpa a punta gli calpestò il palmo fino a fracassargli le ossa. Poi, dopo esserci sciacquati la faccia sotto l’acqua gelida, tornammo a casa coi nostri motorini lasciando Tanino a strisciare sull’asfalto ancora tiepido della calda giornata estiva.
Tanino all’ospedale disse di aver messo la mano sotto la pressa del rame. Per quello che ne so, non ne ha mai più recuperato completamente l’uso. Mio zio, il padre di Luis, qualche anno dopo, per tramite di amicizie, gli fece avere l’invalidità e una piccola pensione perché la regola è che devono avere paura di te, ma tu, dopo che li hai messi a posto, non ti devi mettere al loro livello.

Mio padre era un fesso. Almeno così si diceva in giro, perché nonostante l’appartenenza aveva scelto di fare un mestiere. Aveva iniziato prima come tappezziere, poi era diventato vigile del fuoco. Mio padre ha rischiato di essere cacciato dai pompieri. Negli anni settanta era normale per i comandanti usare i vigili anche per farsi fare dei lavoretti personali. Quando il nuovo comandante di allora chiamò mio padre per chiedergli di rifare divani e poltrone del suo salotto di casa, mio padre lo mandò a fanculo. Allora il comandante gli disse che lo faceva licenziare, ma prima che finisse la frase mio padre lo aveva già sbattuto con la testa vicino al muro. Mio padre era un fesso, ma per scelta, non per sangue.



Mio zio, che era quello che era, portava a mio padre un rispetto esagerato. Quando parlava con me diceva sempre:“Patete è robba bona, o canosco da quando eravamo criaturi. Patete tene o core e fierro, tu si come a isso. Tu pure tiene o core e fierro“. Mio zio P. mi metteva soggezione. Tutti, quando sapevano che gli appartenevo, cambiavano atteggiamento. Ogni tanto, la domenica, lui e mio padre rimanevano seduti a tavola a parlare e a fumare dopo il pranzo. Zio P. era capace di bere due bottiglie di brandy di seguito e di continuare a parlare per ore con la voce impastata e il ferro che gli spuntava dalla cintura dei pantaloni. A mio zio davano tutti del voi, figli compresi. Solo la moglie e mio padre lo chiamavano per nome.



Vedo mio cugino G. al funerale di Luis. Invecchiando è diventato uguale al padre e mi ha fatto impressione. Anche a lui se lo sta mangiando il diabete. Seppellisce il fratello tenendo la mamma sotto al braccio e senza alterare nemmeno per un istante l’espressione arcigna del viso. Nella serata, seduti sulla terrazzina che dà sul porto, ci beviamo silenziosamente una delle bottiglie di brandy di zio P.. Mi dice che non se la passa bene nemmeno lui, l’ambiente è diventato difficile, che i calabresi sono dei figli di zoccola che gli devi solo sparare in bocca, che è costretto ad andare in Sud America una volta al mese e si è “rutt o cazz“, che non si trovano più “guagliuni in gamba” e che si è dovuto prendere tre romeni a faticare e che “mo si deve trattare pure coi mutombo“.
Poi mi chiede come sto e che faccio. Quando gli dico del mio mestiere di adesso annuisce soddisfatto. “A bonanema e papà o diceva che eri robba bona. Bravo Lellù, pure tu è truvato a via toia. Bravo frate cugì“.
A lui, a Luis e alla buonanima di zio P. non era mai piaciuto che mi guadagnassi da vivere sparando addosso alla gente.

Dicevano che era un mestiere di merda.

Nota dell’autore: Questo è un racconto d’invenzione. I fatti narrati come le persone citate sono totalmente di fantasia.
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