"THE END"

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domenica 27 aprile 2014

PARASSITA A CHI? I parassiti sono altri. Confessioni di un finanziere

Qualche anno fa venne programmata una delle campagne pubblicitarie più perfidamente infami e manipolatorie di sempre.

Appena vista fu chiaro a coloro che ancora continuavano a pensare con la propria testa, che era stata partorita da qualcuno che intendeva vilmente, surrettiziamente e impunemente colpevolizzare chi di fatto produce la ricchezza di una nazione come l’Italia, ossia quelle piccole o piccolissime imprese che costituiscono il tessuto produttivo tipico della nostra economia, laddove in altre nazioni esso è formato da grandi industrie.
La piccola impresa, dove il fattore umano è molto più che fondamentale, rappresenta l’essenza stessa della creatività e capacità italiana, ed è quella che viene letteralmente schiacciata, struprata e infine additata e derisa dal fisco.

Coloro che davvero producono, che rappresentano l’economia reale, vengono fatti passare per evasori o grandi evasori se ad un controllo della guardia di finanzia vi sono anche solo piccole inesattezze tra i mille adempimenti e obblighi, continuamente aggiornati, complicati, e tra loro intrecciati o intersecati, ecco che il giudizio morale della società dei benpensanti (e supinamente, stolidamente comunque paganti) viene stimolato e incoraggiato, affinché gli stolidi vadano additando e magari emarginando socialmente coloro che non hanno passato il vaglio del CONTROLLI.

Una assurda e innaturale distorsione che può attecchire unicamente sull’humus emotivo/culturale coltivato da secoli di commistioni non dette tra gli ambiti del potere, in cui la nenia ipnotica del “Mea Culpa, Mea Culpa, Mea Maxima Culpa” dal rituale cui appartiene, attraversa strisciante le pareti dei luoghi di culto per divenire il tarlo immondo in grado di mangiarsi dall’interno una società inizialmente sana e vigorosa.

Una variante del “Divide et Impera” giocata attraverso la potentissima leva del senso di colpa, vera chiave passepartout per manipolare gli animi umani, mettendo moralmente l’uno contro chi fa il bravo a pagare balzelli senza domandarsi il perché, e chi chiedendoselo, cerca di difendersi come può da quella che gli appare una palese ingiustizia.

Beh, la confessione di un maresciallo della Guardia di Finanza che non è riuscito più a tollerare di essere parte di un meccanismo malsano e profondamente iniquo nei confronti dei deboli, alza il velo su quanto squallida sia la verità sull’evasione fiscale.

Quanto meschini siano i motivi che animano tutti gli attori, consapevoli o meno di essere pedine di un gioco diretto dall’alto, incoraggiando i peggiori moti d’animo di cui gli uomini sono capaci, in questa dinamica perversa che altro non è se non l’ennesima guerra tra poveri i cui i veri mandanti rimangono, poiché non guardati, impuniti.

Alla fine della lettura sarà istintivo convenire con noi che quel concetto che ha infettato come un cancro i gangli neurali della nostra società, quel velenoso programma di comportamento che pretenderebbe essere nostra, di cittadini e contribuenti, la “Maxima Culpa”, proprio come un boomerang letale, spinto dalla forza di secoli in cui è rimasto in giro, ritornerà a chi originariamente l’ha messo in circolo.

Perché noi esseri umani, corpo vitale della POLIS, siamo puliti, signore e signori.

I parassiti sono altri.

Jervé


Confessioni di un finanziere:
“Incasso TANGENTI PER LO STATO”
“INCASSO TANGENTI PER CONTO DELLO STATO” UN FINANZIERE DESCRIVE IL PROPRIO INFAME LAVORO, PUBBLICATO IN ESCLUSIVA DAL QUOTIDIANO “LIBERO”


Memorie di un finanziere della polizia tributaria. Si potrebbe intitolare così il sorprendente documento esclusivo che state per leggere. Si tratta della trascrizione, fedele alla lettera, del disarmante sfogo di un disincantato, onesto e preparato maresciallo della Guardia di Finanza, impegnato da diversi lustri nei temutissimi controlli alle imprese.

L’uomo, di cui evitiamo di indicare dati anagrafici e curriculum per non renderlo riconoscibile, ha apparecchiato per Libero uno zibaldone di pensieri, suddiviso in capitoletti, sul suo lavoro di tutti i giorni. Che per lui è diventato un tran tran asfissiante, capace di condurlo quasi al rigetto. Il risultato è questa spietata radiografia che stupisce e, in un certo senso, preoccupa di un mestiere che tanto trambusto porta nelle vite degli italiani.

Infatti in questo sfogo il militare dipinge le ispezioni delle Fiamme gialle come un ineluttabile meccanismo stritola-imprenditori il cui obiettivo non sarebbe una vera e sana lotta alle frodi fiscali, ma una fantasiosa e famelica caccia al tesoro indispensabile a lanciare le carriere di molti professionisti dell’Antievasione. «Nel nostro lavoro ci sono forzature evidenti, a volte imbarazzanti», ammette con Libero il maresciallo.

Che qui di seguito svela retroscena e segreti dei controlli che intralciano ogni giorno il lavoro di centinaia di imprenditori. Una lettura che potrebbe agitare qualcuno e far alzare il sopracciglio ad altri. Ma a tutti deve essere chiaro che non di fiction si tratta e che domani il nostro maresciallo e la sua pattuglia potrebbero bussare alla vostra porta. Preparatevi a leggere il testo di questo finanziere raccolto in esclusiva da Libero.
Ossessione numeri
Dietro alle verifiche ci sono enormi interessi economici: il dato del recupero dell’imposta serve a molti. Sia ai politici che ai finanzieri. Nella Guardia di Finanza il raggiungimento degli obiettivi legittima l’ottenimento dei premi incentivanti e gli stipendi stellari dei generali, che sono decine: uno per provincia, più uno per regione.

Nel nostro Corpo esistono vere e proprie task-force che si occupano di fare previsioni di recupero d’imposta e a fine anno queste devono essere raggiunte, come se l’evasione fiscale si basasse su dei budget. Gli operatori sul territorio sono meno di chi elabora questa realtà virtuale, su 64 mila finanzieri siamo circa 4 mila a fare i controlli.
Indietro non si torna
A fine anno i generali chiedono il dato dell’imposta evasa constatata e lo confrontano con quello dell’anno prima. Il risultato non può essere inferiore a quello di 12 mesi prima. Se il dato scende bisogna dar conto al reparto centrale di Roma del perché si siano recuperati meno soldi e il comandante del reparto periferico rischia di vedersi bloccare la carriera.

Per questo le nostre verifiche proseguono anche di fronte a evidenti illogicità. I nostri ufficiali parlano solo di numeri e quando hanno sentore di un risultato, magari per una previsione affrettata di un ispettore, corrono dai loro superiori anticipando che da quella verifica potrà venir fuori un certo risultato: a quel punto non si può più tornare indietro.

Il verbale diventa subito una statistica, una voce acquisita e ufficiale di reddito non dichiarato. Quando si prospetta un ventaglio di possibilità per risolvere una contestazione si concentrano le energie sempre su quella che porta il risultato più alto. Che sarebbe poco grave se fosse la strada giusta. Ma spesso non lo è. Per la Finanza quello che conta è il dio numero. Il nostro unico problema è come tirarlo fuori.

Per riuscirci c’è un nuovo strumento infernale, la cosiddetta “mediana”, che va di gran moda tra gli ufficiali. La si pronuncia con rispetto e deferenza, anche perché da essa dipende la carriera di chi la evoca. Si tratta di uno studio fatto a tavolino, che stabilisce il valore medio della verifica necessario a raggiungere gli obiettivi, il tetto al di sotto del quale non si può andare. Se capiamo che in un’azienda il verbale sarà di entità inferiore alla mediana, derubrichiamo la verifica a controllo in modo che non entri nelle statistiche ufficiali.

Alla Guardia di Finanza abbiamo uffici informatici che elaborano dati in continuazione. Ma si tratta di numeri “drogati”, come lo sono quelli dei sequestri. Nei magazzini dei cinesi ho visto colleghi registrare alla voce “giocattoli” ogni singolo pallino delle pistole per bambini. Spesso questi servizi si fanno in occasione delle feste natalizie, così passa l’informazione che sul territorio c’è sicurezza.

Con questi numeri i generali si riempiono la bocca il 21 giugno, giorno della festa del Corpo. Lo speaker spara cifre in presenza di tutte le autorità, dei presidenti dei tribunali, dei politici, ecc. ecc. Quel giorno è un tripudio di dati pronunciato con voce stentorea: recuperata tot Iva, scovati tot milioni di redditi non dichiarati, arrestati x emittenti fatture false. Una festa!
Normativa astrusa

La normativa tributaria italiana è talmente ingarbugliata che si presta alla nostra logica del risultato a ogni costo. Per noi è piuttosto semplice fare un rilievo visto che siamo aiutati da questa legislazione astrusa e abnorme, spesso contradditoria e conflittuale. Nel nostro Paese è quasi impossibile essere in regola e per chi lo sembra ci prendiamo più tempo per spulciare ogni carta.

Infatti se una norma può apparire favorevole all’imprenditore, c’è sicuramente un’altra interpretabile in maniera opposta. E in questo ci aiuta l’oceanica produzione di sentenze, frutto di un eccessivo contenzioso. Un contratto, un’operazione possono essere interpretati in mille modi e alla fine trovi sempre una sentenza della Cassazione che ti permette di poter fondare un rilievo su basi giuridiche certe. Questo è il Paese delle sentenze.

Analizzando un bilancio, un’imperfezione si trova sempre. Magari per colpa dello stesso controllore che prima dice all’imprenditore di comportarsi in un modo e poi in un altro, inducendolo in errore. Per esempio, su nostro suggerimento, un’azienda non contabilizza più certe spese come pubblicità (deducibili), ma come spese di rappresentanza (deducibili solo in parte). Quindi arriva l’Agenzia delle Entrate e spiega che quelle non sono né l’una né l’altra.

A volte succede che qualcuno abbia già subito un controllo, abbia aderito a un condono e, zac, arriviamo noi e contestiamo lo stesso aspetto, ma in modo diverso. Dopo i primi anni nel Corpo non ho più sentito di controlli chiusi con un nulla di fatto e in cui si torna a casa senza aver contestato qualcosa. Alla fine chi lavora impazzisce.
Chi sbaglia non paga
Come è possibile tutto questo? Semplice: perché chi sbaglia non paga, ma anche perché chi sbaglia non saprà mai di averlo fatto. Il motivo è semplice: noi non comunichiamo con l’Agenzia delle Entrate e non sappiamo mai che fine facciano i nostri verbali. Per questo se ho commesso un errore non lo verrò mai a sapere: il nostro è solo un verbale di constatazione, a renderlo esecutivo è l’Agenzia delle Entrate che lo trasforma in verbale di accertamento. Però raramente i nostri colleghi civili bocciano il nostro lavoro, anzi questo non succede nel 99,9 per cento delle situazioni.

Si fidano di noi e, anche se sono molto più preparati, nella maggior parte dei casi prendono il nostro verbale e lo notificano, tale e quale, al contribuente. Quello che sappiamo per certo è che i nostri verbali, giusti o sbagliati che siano, diventano numeri e quindi non ci interessa che vengano annullati, tanto non ne verremo mai a conoscenza né saremo chiamati a risponderne. Per noi resta un grosso risultato. E visto che nessuno paga per i propri errori, il povero imprenditore continuerà a trovarsi ignaro in un castello kafkiano fatto di norme e risultati da ottenere.
Imprese sacrificali
Gli imprenditori con noi sono sempre gentili, ci accolgono con il caffè, sopportano di averci tra i piedi per settimane, ma si capisce che vorrebbero dirci: scusateci, ma avremmo pure da lavorare. A noi però questo non interessa: dobbiamo contestargli un verbale a qualsiasi costo e quando bussiamo alla loro porta sappiamo che non hanno praticamente speranza di salvezza. Per contrastare e contestare questa trappola infernale l’imprenditore è costretto a pagare consulenti costosissimi, ma noi rimaniamo sempre sulle nostre posizioni. A volte capita che per provare a difendersi il presunto evasore chiami in soccorso come consulenti ex finanzieri, ma spesso questo non gli evita la sanzione. Anzi.

Negli ultimi anni ho notato una certa arrendevolezza da parte degli imprenditori: dopo un po’ si stancano. Capiscono, e ce lo dicono, che tanto dovranno fare ricorso perché noi non cambieremo idea. Per tutti questi motivi molti di loro costituiscono a inizio anno un fondo in previsione della visita della Finanza. Sono coscienti che qualcosa dovranno comunque pagare.

Chi fa veramente le grandi porcate, chi apre e chiude partite Iva, emette false fatture o costituisce società di comodo magari alle Cayman è molto più veloce di noi e per questo non lo incastriamo, mentre azzanniamo quelli che operano sul territorio e che sono regolarmente censiti nelle banche dati. Alla fine lo Stato colpisce sempre i soliti noti. Non è una nostra volontà, ma dipende dal fatto che non abbiamo risorse per fare la vera lotta all’evasione e in ogni caso dobbiamo fornire dei numeri al ministero per poter legittimare la nostra esistenza come istituzione. Anche in Europa.

Tangente di Stato

L’imprenditore, se accetta la proposta di adesione al verbale entro 60 giorni, paga solo un terzo di quanto gli viene contestato e spesso salda anche se non lo ritiene giusto, per togliersi il dente ed evitare ricorsi costosi (a volte più dei verbali) e sine die. In pratica accetta di pagare una tangente allo Stato.

Agli imprenditori i ricorsi costano molto e se la commissione provinciale, il primo grado della giustizia tributaria, dà ragione allo Stato, l’imprenditore prima di ricorrere alla commissione regionale, il secondo grado, deve pagare metà del dovuto. Per questo chi lavora spesso preferisce chiudere la partita all’inizio, pagando un terzo.

Giustizia da farsa


Il contradditorio tra Guardia di Finanza e imprenditori durante le verifiche è una farsa, perché ognuno rimane sulla propria posizione, ma va fatto per legge. Nel contradditorio gli imprenditori non hanno scampo: quel numero, quell’ipotesi di evasione, ormai è stato venduto e non può più essere ridimensionato. È entrato nel sistema e nelle nostre statistiche. A noi non interessa se magari dopo anni quel verbale verrà annullato e non avrà prodotto alcun introito per lo Stato.

Le cose non vanno meglio con la giustizia tributaria, gestita da commissioni composte da avvocati, commercialisti, ufficiali della Finanza in pensione che fanno i giudici tributari gratuitamente giusto per fare qualcosa o per sentirsi importanti. È incredibile, ma in Italia il sistema economico-finanziario viene affidato a un servizio di “volontariato”.

La verità è che un tale esercito di volontari senza gratificazioni economiche non se la sente di cassare completamente il lavoro di finanzieri e Agenzia delle Entrate e l’imprenditore qualcosa deve sempre pagare. Difficilmente questi giudici per hobby danno torto allo Stato.
L’assurdità è che vengono pagati 30-40 euro per motivare sentenze complesse che hanno come oggetto verbali da milioni di euro, scritti da marescialli aizzati dal sistema.
Formazione assente

Il nostro vero problema è la mancanza di specializzazione di un Corpo che cerca di riscattarsi nel modo sbagliato, provando a portare a casa grandi risultati, sebbene “storti”. A volte l’ignoranza aiuta a far montare un rilievo che non sta né in cielo né in terra. Sulla nostra formazione non ho niente da dire, perché non esiste.

Eppure dobbiamo confrontarci con specialisti agguerriti, leggere documenti in lingue straniere, e la gran parte di noi non sa una parola in inglese. Non ci forniscono nemmeno i codici tributari aggiornati, mentre spendono milioni per farci esercitare ai poligoni, visto che siamo inspiegabilmente ancora una polizia militare, come solo in Equador e Portogallo.

Un commercialista lavora 12 ore al giorno e si forma continuamente. Dall’altra parte della barricata c’è gente come noi che non vede l’ora di scappare via dall’ufficio, dove spesso non ha neppure a disposizione una scrivania o la deve condividere con altri colleghi. In questo modo il lavoro diventa l’ultimo dei pensieri. I più bravi vanno in pensione appena possono, per riciclarsi come professionisti al soldo delle aziende. Ci vuole una fortissima motivazione per studiare una materia terribile come il diritto tributario.

Avvocati e commercialisti trovano gli stimoli nelle parcelle, da noi un maresciallo con vent’anni di servizio guadagna 1.700 euro. Gli incentivi li dobbiamo trovare dentro di noi, magari pensando di sfruttare il sistema per trovare un altro lavoro. È illogico che un mestiere così delicato, dove si contestano milioni di euro d’evasione, sia affidato a gente sottopagata e impreparata. L’unico modo di tenersi aggiornati è quello di studiare a proprie spese, pagandosi master e corsi. Purtroppo la formazione è costosissima e spesso ci rinunciamo. È chiaro che un sistema del genere presti il fianco al rischio della corruzione.

In più bisogna considerare che per noi le verifiche sono particolarmente rischiose. In base alla mia esperienza non le facciamo con la giusta professionalità, possiamo commettere errori in buona fede, essere invischiati in fatti che neanche capiamo. Per esempio alcuni di noi sono stati accusati di aver ammorbidito un verbale per un tornaconto, in realtà lo avevano fatto per ignoranza e per questo ora quasi nessuno vuole più fare questo tipo di lavoro.
Risorse all’osso

I nostri capi hanno budget di spesa sempre più ristretti. Nonostante ciò ogni ufficiale deve portare a casa i risultati con i soldi e le pattuglie che ha. Risultati almeno uguali a quelli dell’anno precedente. A causa di questa mancanza di mezzi siamo costretti a portare via dalle aziende penne, risme di carta, spillatrici.

E secondo me gli imprenditori se ne accorgono, ma non dicono nulla per compassione.
Onestamente gli ufficiali non sono responsabili di questa penuria di risorse, visto che i fondi destinati alla lotta all’evasione vengono decisi dai politici. Ma la frustrazione dei nostri superiori viene compensata da ottimi stipendi personali che lievitano grazie ai risultati conseguiti. Cosa che ovviamente non succede a noi.

Nel nostro lavoro, la mattina, ammesso che trovi una macchina libera, devi prima fare car-sharing e accompagnare diversi colleghi ai reparti, quindi ti restano due o tre ore per fare visita a un’azienda. Quando rientriamo da una verifica il nostro principale problema è segnare sul registro quanti chilometri abbiamo fatto e quanta benzina abbiamo consumato. Arriveremo al paradosso di fare le verifiche in ufficio a contribuenti trovati su Google.
Lontani dalla realtà

I nostri vertici sono lontani dalla realtà, sono convinti che noi facciamo “lotta all’evasione”. C’è una distanza siderale tra chi sta in trincea, come me, e chi vive nei salotti. Un maresciallo può parlare solo con il tenente e non con i gradi superiori. Il nostro messaggio viene filtrato e arriva al vertice completamente distorto. Nel nostro sistema militare non conta quello che pensi del tuo lavoro, ma il grado che hai sulle spalle. L’ufficiale non va a riferire al superiore se l’ispettore gli ha detto che un controllo potrebbe non portare a niente. Al contrario insinua nei vertici la speranza che un risultato arriverà.

E così chi va in giro per aziende deve ingegnarsi per trovare il cavillo che porti al risultato, solo per sentirsi dire bravo o per una pacca sulla spalla.

L’animo umano si accontenta di poco. In questa catena di comando in cui tutti devono fare carriera non sono ammessi dubbi od obiezioni, l’informazione reale resta a valle, al generale arriva quella virtuale, il famoso “numero”. In nome del quale vengono immolati molti evasori virtuali.

Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/11601263/Confessioni-di-un-finanziere–.html

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