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domenica 2 febbraio 2014

Riflessione su “Conosci te stesso”

Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa
di Giuseppe Bonaccorso - Gennaio 2014

Ho riletto con grande piacere un articolo sul senso della frase “Conosci te stesso”, subito dopo, forse per caso, o forse – citando Jacques Monod– per apparente “necessità”, mi è passato sotto mano un articolo diLamberto Rondoni (1) dedicato alla complessità e alla relazionalità nelle scienze matematiche, fisiche e naturali (Nuova Umanità).
Nessun nesso logico sorge per caso se non esiste una seppur flebile relazione tra le parti in causa e, anche in questo caso, dopo una doverosa meditazione scevra dagli innumerevoli vincoli “concettuali”, sono presto emersi i contorni sfocati di un senso più profondo che, dopo essersi fatto spazio tra decine di concetti alienanti e talvolta perfino avulsi dal vero contesto, ha presto manifestato la sua straordinaria pregnanza.
Perché mai la conoscenza di se stessi – concetto iniziatico dalle ataviche origini - si lascia così facilmente accarezzare dal ben più giovane, moderno e spregiudicato universo della complessità razionale, del caos e della natura deprivata di quell’apparente ordine che i filosofi greci avevano così bene immaginato e descritto?
Certamente potrebbe trattarsi di un’apparente sovrapposizione che non svela affatto principi oggettivi, ma che anzi, in forza della sua appartenenza all’universo individuale, trae la sua energia “simbolica” proprio dalla congiunzione di un mondo dominato intrinsecamente dall’isolamento intellettuale (la psiche) con il principio ontologico per eccellenza: ovvero, la natura quale manifestazione di un’esteriorità che oggettiva l’esistenza di esseri “osservatori”.
Tuttavia, proprio nell’ambito di una scissione concettuale: soggettivo e oggettivo, osservatore e osservato, yin e yang, la reiterata dualità ha gettato le basi per il suo asintotico superamento e, in effetti, proprio in gloria dell’analisi junghiana, la lettura consequenziale dei due scritti, ha immediatamente lasciato emergere, prima nel subconscio e poi, “depurazione” dopo “depurazione” anche nella piena coscienza razionale, l’immagine pseudo-archetipica dell’Ouroboros – ovvero il serpente che, posto in circolo perfetto, si morde la coda.


Il simbolo circolare, contestualizzato nel paesaggio che contorna il mio flusso di pensieri, si è subito formato nella sua completezza – riempita degli innumerevoli significati che anche lo stesso
Renè Guenon ha voluto ampiamente rimarcare -, ma ciò che ha realmente catturato la mia attenzione, non è stata l’idea quasi spontanea di eterna continuità, della fine che inghiotte l’inizio e dell’inizio che implica la fine: tutto ciò, lampante come un Sole a cui ormai gli occhi sono usi, è rimasto in disparte, lasciando invece gli “onori” della scena ad un’implicazione logica apparentemente banale e secondaria: ovvero che il fine ultimo (e forse utopico) del serpente intento a mordere la sua coda è proprio quello di “comprendersi”, di “conoscersi”, di “farsi definitivamente suo” !
D’altronde non è forse vero che i neonati imparano inizialmente a conoscere il mondo esterno “mangiando” anche i loro stessi piedini? E se Freud ha voluto liquidare tale “fenomeno” ascrivendolo ad una fase evolutiva (transitoria) prettamente “orale”, qualcun altro, parecchi secoli prima, ha messo altresì in evidenza – seppur in un contesto ben preciso – che “il Regno dei Cieli – coronamento della massima sapienza terrena – è, in modo apparentemente paradossale, dominio esclusivo dei piccoli”, ovvero che l’erudizione intellettuale potrà pure aumentare l’altezza e la perfezione dei ragionamenti razionali, ma inesorabilmente allontanerà anche la “testa” dell’essere dalla sua inalienabile ed insostituibile “coda”: l’inizio dalla fine, il piedino sempre meno piccolo, dal capo sempre più compiuto e solidificato, come se l’elevazione interiore potesse e dovesse necessariamente prescindere dalla base ove l’intero essere poggia saldamente.
Conoscere se stessi, quindi, diviene non più un problemaepistemologico, pane quotidiano dei filosofi, ma piuttosto un vero e proprio ritorno alle origini dell’essere, inteso non come regresso intellettuale (che oltre ad essere impossibile, è anche assolutamente disumano), ma piuttosto come “riavvolgimento” del flusso lineare dell’acquisizione della conoscenza per riportare la bocca, ormai avvezza a cibi ben più duri e “complessi” del latte, ad afferrare con la stessa inarrestabile decisione del neonato, i piedi che ormai poggiamo saldamente a terra.
Naturalmente il problema, lungi dal dissiparsi come nebbia al sole, sembra invece rinforzare la sua naturale essenza proprio a partire dagli studi che la psicologia evolutiva considera come capisaldi del pensiero occidentale moderno e di cui uno dei più importanti assiomi afferma che la fase orale dello sviluppo dell’individuo deve essere superata affinché la conoscenza possa pian piano riposizionare i suoi strumenti di indagine nel dominio a loro più consono. I sensi ordinari dovranno pertanto servire esclusivamente a “catturare” la natura, mentre il cervello, riduzione materiale della mente, avrà l’onore e soprattutto l’onere di consolidare e donarci la tanto agognata “comprensione”.
Ma proprio in quest’apparente semplicità procedurale, nella linearità oltre ogni aspettativa, si annida lo spettro appena nato della “complessità organizzata”, che non è – come troppo spesso si sente ripetere – una filosofia classificatrice della difficoltà e del logicamente “complicato”, ma piuttosto una scientifica presa di coscienza che il mondo dei fenomeni, lungi dal volersi piegare definitivamente a regole modellate da menti veramente “elevate”, cova sotto la cenere l’embrione sempiterno di un’impredicibilità (2) prettamente relazionale, ovvero un’irrefrenabile tendenza a sfuggire la perfezione delle osservazioni (che per loro natura richiedono un osservatore esterno) per donare l’infinita precisione della conoscenza solo a ciò che è fisicamente (e paradossalmente) impossibile: la particella che “vede” la sua stessa posizione, il fascio di luce che acquista auto-consapevolezza sulla sua velocità, l’osservato che non altera alcunché dell’ambiente che lo circonda poiché osserva solo se stesso.
Ma se la fisica pone il veto alle scellerate vette che la fantasia può raggiungere, la realtà esistenziale dell’uomo non lascia scampo ad equivoci: nell’emergere (quasi-)spontaneo della complessità organizzata, gli esseri intelligenti hanno perso l’esclusività della fisicità, per acquisire una consapevolezza trascendente: mordendo il suo piede il neonato non impara a conoscersi per poi lasciare il dominio alla sua sempre crescente maturità intellettiva: piuttosto, egli, proprio come l’Ouroboros, avvicina il suo apice evolutivo alla base da cui la sua stessa esistenza ha tratto origine per completare e perfezionare la sua vera e più profonda conoscenza.
In definitiva, perciò, la complessità della realtà fenomenica, se da un lato pone un vincolo operativo non indifferente per lo scienziato che barcolla nel buio e cerca disperatamente una luce, d’altra parte garantisce, grazie al superamento della pura relazionalità conoscitiva, una possibilità concreta di “comprendere” se stessi in una meravigliosa fagocitosi intellettiva che, da mero esercizio psicologico, si tramuta nell’auto-acquisizione del proprio percorso di crescita e, in ultima analisi, della propria “storia” individuale.

Giuseppe Bonaccorso

giuseppe.bonaccorso@me.com
Sito web http://bonaccorso.org


NOTE
1) L. Rondoni, “Complessità e relazionalità nelle scienze matematiche, fisiche e naturali”, Nuova Umanità 196-197/2011
2) Il termine “impredicibilità” non esiste nel vocabolario italiano, ma può essere considerato un neologismo scientifico che esprime l’impossibilità ontologica di un particolare frammento di realtà.
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