"THE END"

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mercoledì 12 febbraio 2014

Leggere nella mente: un nuovo metodo in grado di riconoscere quando stiamo pensando ai numeri

In futuro saremo in grado di leggere nel pensiero altrui. Sarà il traguardo finale di un nuovo studio attraverso il quale i ricercatori hanno raccolto la prima inequivocabile evidenza che il modello di attività cerebrale visibile in qualcuno che sta svolgendo un esercizio matematico in condizioni controllate sperimentalmente è molto simile a quello osservato quando la persona si impegna in pensieri che hanno a che fare con le quantità nel corso della vita quotidiana.

“Ora siamo in grado di intercettare il cervello nella vita reale” afferma Josef Parvizi, professore associato di neurologia e scienze neurologiche e direttore dello Stanford’s Human Intracranial Cognitive Electrophysiology Program. Allo studio, pubblicato nel mese di ottobre su Nature Communications, hanno collaborato anche Mohammad Dastjerdi e Muge Ozker. “E’ eccitante e allo stesso tempo pauroso” sostiene Henry Greely del comitato direttivo dello Stanford Centre for Biomedical Ethics che non ha preso parte allo studio ma ha una grande familiarità con l’argomento stesso e si è definito molto impressionato dai risultati raggiunti “Essi in primo luogo - ha dichiarato – dimostrano che possiamo vedere quando qualcuno sta lavorando con i numeri e, in secondo luogo, che un giorno potremo essere in grado di manipolare il cervello per influenzare il modo in cui una persona tratta con i numeri"

I ricercatori hanno monitorato l’attività elettrica in una zona del cervello chiamata solco intraparietale, noto per la sua importanza nell’attenzione e nel movimento dell’occhio e della mano. Precedenti studi hanno suggerito che i grappoli di cellule nervose presenti in quest’area sono anche coinvolti in un’abilità matematica che è l’equivalente dell’alfabetizzazione in campo linguistico. Il nuovo studio rappresenta un’innovazione radicale rispetto ai precedenti.


Le tecniche utilizzate dagli altri studi, infatti, come la risonanza magnetica, sono limitate nella loro capacità di studiare l’attività del cervello nelle situazioni della vita reale. Le ricerche compiute in passato si sono focalizzate sul testare soltanto una specifica funzione in una ben determinata regione del cervello ed hanno provato ad eliminare ogni fattore che potesse generare confusione o almeno a considerarlo in maniera diversa. In più, i soggetti reclutati per l’esperimento si dovevano trovare più o meno immobili dentro una stanza tubolare, scura, il cui silenzio era punteggiato da rumori molto forti, di tipo meccanico, a cadenza costante, mentre sullo schermo di un computer venivano fatte balenare delle immagini.

“Questa non è vita reale - commenta Parvizi - Uno non può trovarsi nella sua stanza, sorseggiando tranquillamente un tè e sperimentando spontaneamente gli eventi della vita reale” Una domanda di importanza centrale, a suo avviso, è questa: “In che modo una popolazione di cellule nervose che è stato dimostrato sperimentalmente essere importante in una particolare funzione si comporta nella vita reale?”.

E proprio su questo punto si è concentrata l’attenzione del gruppo di ricercatori legati a Pavizi. Il loro metodo, chiamato registrazione intracranica ha fornito una eccezionale precisione anatomica e temporale ed ha permesso agli scienziati di monitorare l’attività cerebrale quando le persone erano immerse nelle situazioni di vita reale. Parvizi e gli altri ricercatori hanno preso in esame il cervello di tre volontari ai quali era stato proposto un trattamento chirurgico per i loro ricorrenti attacchi epilettici, resistenti alle cure farmacologiche.

La procedura prevede la temporanea rimozione di una parte del cranio del paziente ed il posizionamento di pacchetti di elettrodi sulla superficie del cervello esposta. Per una settimana, i pazienti sono rimasti allacciati all’apparato di monitoraggio mentre gli elettrodi intercettavano l’attività elettrica nel cervello. Questo monitoraggio è continuato ininterrotto per tutto il periodo di degenza ospedaliera dei pazienti, catturando i ripetuti attacchi epilettici e consentendo ai neurologi di determinare il punto esatto del cervello in cui l’attacco epilettico ha avuto origine. Per tutto il tempo i pazienti è rimasti legati all’apparato e quasi esclusivamente lasciato nel loro letto. D’altro canto però, nei limiti di quanto ciò sia possibile in una situazione di degenza ospedaliera, i pazienti si trovavano in una realtà piuttosto confortevole, senza dolore ed erano liberi di mangiare, bere, pensare, parlare ad amici e familiari sia direttamente che a telefono, o anche di guardare la televisione. Gli elettrodi impiantati nel cervello dei pazienti intercettavano ciascuno una popolazione di diverse centinaia di migliaia di cellule nervose, riportando i dati raccolti ad un computer.

Nello studio le azioni dei partecipanti all’esperimento erano anche monitorate attraverso videocamere per tutto il tempo della degenza. Ciò ha consentito in seguito ai ricercatori di correlare le attività compiute volontariamente dai pazienti nella vita reale con il comportamento delle cellule nervose nell’area del cervello presa in esame. Come parte dello studio, i volontari rispondevano vero o falso ad una serie di domande che venivano proposte l’una dopo l’altra attraverso un computer portatile. Alcune di esse richiedevano di svolgere operazioni di calcolo – ad esempio “è vero o falso che 2+4=5?” – mentre altre presupponevano quella che gli scienziati chiamano memoria episodica – ad esempio “ho bevuto un caffè stamattina. Vero o falso?”

Il gruppo di ricercatori di Pavizi ha scoperto che l’attività elettrica in un particolare gruppo di cellule nervose nel solco intraparietale aveva dei picchi quando, e solo quando, i volontari stavano svolgendo operazioni di calcolo. Parvizi e i suoi colleghi hanno analizzato la registrazione quotidiana degli elettrodi di ogni volontario, ed hanno identificato molti picchi nell’attività del solco intraparietale che si sono verificati al di fuori dei contesti sperimentali. Si sono dunque rivolti ai filmati fatti per vedere esattamente cosa i volontari stessero facendo nel momento in cui si registravano quei picchi.

Hanno scoperto che quando un paziente menzionava un numero o comunque un riferimento ad una quantità come “ancora un po’” o “molti” o “più grande dell’altro” c’era un picco di attività nella stessa popolazione di cellule nervose del solco intraparietale che veniva attivato quando il paziente stava svolgendo attività di calcolo in condizioni sperimentali. E’ stato un risultato inaspettato. “Abbiamo scoperto che questa regione è attivata non solo leggendo numeri o pensando ad essi – afferma Parvizi – ma anche quando i pazienti si stavano riferendo in modo più trasversale a delle quantità. Queste cellule nervose sono molto specializzate attive solo quando il soggetto inizia a pensare ai numeri. Quando il soggetto sta ricordando, parlando o pensando, non sono attivate”. Perciò era possibile sapere, semplicemente consultando la registrazione elettronica dell’attività cerebrale dei partecipanti, se essi stessero o meno pensando a qualcosa che avesse a che fare con le quantità in condizioni non sperimentali.

La scoperta potrebbe portare ad applicazioni in grado di leggere la mente che, ad esempio, consentirebbero ad un paziente reso muto a causa di un incidente di comunicare attraverso il pensiero passivo. Si potrebbe giungere anche ad esiti più discutibili come ad esempio l’impianto di un microchip che possa controllare i pensieri delle persone. Ma si tratta di sviluppi non certo legati ad un futuro prossimo. A sgomberare il campo da ogni timore legato all’incombere di una capacità di controllo della mente interviene Greely che afferma. “Parlando molto concretamente non è la cosa più semplice al mondo andare in giro ad impiantare elettrodi nel cervello della gente. Di certo non è un qualcosa che verrà fatto domani.” Parvizi concorda. “Siamo ancora agli inizi con questi procedimenti – spiega – se vogliamo fare un paragone con una partita di pallone possiamo dire di non essere neppure al fischio d’inizio, ma di aver semplicemnte preso il biglietto per entrare allo stadio”.

Non resta dunque che attendere il fischio d’inizio e vedere come si svolgerà la partita.

Lo studio è stato finanziato da National Institute of Health, the Stanford NeuroVentures Programand the Gwen and Gordon Bell Family.

Francesca Di Giorgio

http://www.nextme.it/scienza/parascienza/6878-leggere-nel-pensiero

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