"THE END"

"THE END"
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sabato 7 dicembre 2013

La Danza della Realtà di Jodorowsky


Infanzia

Al principio il cielo e la terra erano talmente stretti l’uno contro l’altra che non lasciavano nessuno spazio tra essi, fino all’arrivo dell’essere cosciente che liberò l’uomo sollevando il firmamento. Vale a dire, stabilendo la differenza tra umanità e bestialità.
Sebbene in modo ingenuo. Mi ero reso conto che in quella realtà dove io, Pinocchio, mi sentivo un estraneo, tutto si collegava con tutto attraverso una fitta rete di sofferenza e di piacere. Non esistevano cause insignificanti, qualunque azione provocava effetti che si estendevano fino ai confini dello spazio e del tempo.
Si, il mondo era intessuto di sofferenze e di piacere; in ogni azione il male e il bene danzavano come una coppia di amanti.
Mettendomi nei panni di tutto ciò che non ero io, sentivo che tutto era cosciente, tutto era dotato di vita: quello che credevo fosse inanimato, era un’entità più lenta, e quello che credevo fosse invisibile era un’entità più rapida. Ogni coscienza possedeva una velocità diversa. Se sapevo adattarmi a tali velocità potevo stringere rapporti che mi avrebbero arricchito.
“Alendrajito, la bocca non è fatta per dire frasi aggressive, a ogni parola dura ti si secca un poco l’anima”.
La fame genera artisti.
“Solitudine è non saper stare con se stessi”.
L’Ecclesiaste recita: Chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore. Ma io ti dico, soltanto chi conosce il dolore può avvicinarsi alla sapienza. Non posso dire di averla conseguita, sono soltanto una tappa nel cammino dello spirito che viaggia verso la fine del tempo.
“… E così è l’anima che trasporta il nostro corpo, non sappiamo da dove viene né dove va, ma adesso, qui, le vogliamo bene e non desideriamo perderla, è un tesoro. Una coscienza misteriosa, infinitamente più grande della nostra, conosce l’origine e la fine ma non ce le può rivelare perché il nostro cervello non è abbastanza evoluto da comprenderlo.”
Ciascuna etnica viveva rinchiusa fra le pareti mentali piene di superbia che si era costruita.
“Te ne vai però rimani qui. Se i rami crescono tentando di occupare il cielo intero, le radici non abbandonano mai la terra dove sono nate”.
Avevo capito che ero cittadino del mondo dei miracoli.
Ero passato dagli insulti al silenzio. Erano meno dolorosi i primi.
Gli anni bui
Davanti a me si aprivano soltanto due alternative: o diventavo un assassino di sogni come gli altri, oppure mi rinchiudevo nella mia mente trasformandola in una fortezza. Optai per la seconda scelta.

Si, prima di venire rifiutato, era meglio che fossi io a rifiutarli, isolandomi!
Troncare ogni rapporto con l’esterno era più conveniente per me, mi dava forza ma nello stesso tempo mi rendeva sterile. Avevo la sensazione di essere di troppo nel mondo.
Le sofferenze familiari, come gli anelli di una catena, si ripetono di generazione in generazione finché un discendente, in questo caso forse tu, acquista consapevolezza e trasforma la sua maledizione in una benedizione.
Avendo dimenticato che esisteva un cielo infinito, vivevo a testa bassa e il mio unico orizzonte era il rozzo marciapiede di cemento.
Mi sentivo come un’entità priva di scheletro cui erano state levate le stampelle.
La solitudine mi stringeva tutto il corpo, come la benda di una mummia. All’interno di quel bozzolo di tela corrosa io, sterile bruco, stavo agonizzando.
Se quei disegni misteriosi chiamati destino desideravano che io vivessi, per farlo prima dovevo nascere.
Primi atti
A volte, nella prostrazione più grande, quando ci sentiamo completamente abbandonati, quando meno ce lo aspettiamo appare un segno che ci indica la via da seguire. Chi osa avanzare al buio, anche se ha perso la speranza, alla fine trova una meta luminosa.
Dicendo “Attento, c’è un muro!” il Maestro intendeva che il discepolo, per distrazione, non lo vedeva. Forse confondeva la barriera con la realtà, facendo dei propri limiti mentali la natura del mondo.
Lascia che la percezione del mio corpo si facesse presente. Concentrai la mia attenzione sulle diverse parti dell’organismo. Mi resi conto di quello che sentivo. Ogni viscera, ogni membro, ogni regione del mio corpo aveva qualcosa da dirmi. All’inizio erano lamentele – mi accusavano di averli abbandonati, di non avere fiducia in loro -, seguite da euforiche dichiarazioni d’amore. Scoprii che le mie braccia, le gambe, le orecchie, la pelle, i muscoli, le ossa, i polmoni, gli intestini, l’intero corpo era impregnato di una immensa gioia di vivere.
Se il bambino nel deserto chiude la mano, per sé ottiene soltanto una manciata di sabbia, se apre la mano, può passarci l’intero deserto…
Tentai di materializzare l’astratto.
L’odio: cornucopia chiusa in un forziere di cui abbiamo perduto la chiave.
L’amore: strada dove le nostre impronte invece di seguirci ci precedono.
La poesia: escremento luminoso di un rospo che ha inghiottito una lucciola.
Il tradimento: persona priva di pelle che si muove saltellando da una pelle all’altra.
La gioia: fiume pieno di ippopotami che spalancano le fauci azzurrine per offrire i diamanti che hanno trovato scavando nel fango.
La fiducia: danza senza ombrello sotto una pioggia di pugnali.
La libertà: orizzonte che si stacca dall’oceano per volare formando labirinti.
La certezza: una foglia solitaria divenuta il rifugio di un bosco.
La tenerezza: vergine vestita di luce che cova un uovo violaceo.
Le immagini che ero in grado di creare potevano essere gioielli, ma il forziere in cui le conservavo, vale a dire la mia persona, era privo di valore.
… consideravo il cambiamento come un malcelato aspetto della morte.
“La spada che tutto trancia, non trancia te quando diventerai una spada”.
E ora quel bambino abusato abusava di me, cercando ogni pretesto per ripetere quello che lo aveva traumatizzato.
“Mi hanno disprezzato, mi hanno punito, allora adesso non faccio niente, non valgo niente, non ho il diritto di esistere”
Ogni idea, ogni sentimento, ogni desiderio, ogni bisogno arriva alla mia anima dicendo: “Sei Io!”. Sono entità usurpatrici. L’essere vuoto, potendo contenere l’universo, non sa chi sa, però vive, crea, ama.
L’atto poetico
Ogni volta che in questo mondo pieno di violenza qualcuno mi tradisce, ricordo quelle due sorelle e mi consolo pensando che esistono anche creature sublimi.
Be’ forse non era stata soltanto la fortuna: con la mia diffidenza di bambino ferito avevo sviluppato il talento di schivare i colpi. Nel pugilato non vince soltanto chi picchia più forte, ma anche chi è più bravo a evitare le botte. Ho sempre rifuggito i contatti negativi per cercare amici che potessero essere miei maestri.
Mi resi conto che le mie lamentele erano dettate dall’egoismo. Mi lamentavo perché non volevo perdonare. Vale a dire, non volevo maturare, diventare adulto. E la strada del perdono mi obbligava a riconoscere che a modo suo tutta la famiglia, genitori, zii, nonni, erano le mie vittime. Avevo tradito le loro speranze, speranze che per me erano certo negative, assurde, ma per loro, per il loro livello di coscienza, legittime.

E soprattutto tu, grasso Isidoro, perdonami per non avere compreso la tua crudeltà: non sei mai cresciuto, sei sempre stato un gigantesco neonato.
L’immagine che abbiamo dell’altro non è l’altro, bensì una sua rappresentazione. Il mondo che ci viene imposto dai nostri sensi dipende dal nostro modi di vederlo. Per noi, in un certo senso, l’altro è quello che crediamo che sia.
E lì ebbi la prova che la poesia era un miracolo che poteva cambiare la visione del mondo. E cambiando la visione cambiava anche l’oggetto percepito.
Il miracolo è uno dei fili che intessono il mondo.
Mi sentivo vuoto. Non potevo scrivere, né pensare né sentire. Se mi avessero chiesto chi ero, la mia risposta sarebbe stata: “Sono uno specchio in frantumi”. Per ore, dormendo pochissimo, continuavo a incollare i frammenti.
… bisognava rispettare le parole dell’Ecclesiaste: “non c’è niente di meglio per l’uomo che mangiarr e bere e procurare gioia al suo cuore”.
Sulla porta era scritta una frase tratta da Il lupo della steppa, di Hesse: “Teatro magico. L’ingresso costa la ragione”.
Iniziammo col constatare che il linguaggio che ci era stato insegnato era veicolo di idee folli. Invece di pensare correttamente, pensavamo in modo contorto. Occorreva restituire ai concetti il loro vero senso. Passammo parecchio tempo a farlo.
Ricordo alcuni esempi:
Invece di “mai”: pochissime volte.
Invece di “sempre”: sovente.
“Infinito”: estensione ignota.
“Eternità” fine impensabile.
“Fallire”: cambiare attività.
“Mi ha deluso”: l’ho immaginato in modo errato.
“Io so”: io credo.
“Bello, brutto: mi piace, non mi piace.
“Sei fatto così”: ti percepisco così.
“Ciò che è mio”: ciò che ora possiedo.
“Morire”: cambiare forma. …
Poi abbiamo passato in rassegna le definizioni e siamo giunti alla conclusione che era assurdo definire affermando.
Invece era giusto definire negando.
“Felicità”: essere ogni giorno meno triste.
“Generosità”: essere meno egoista.
“Coraggio”: essere meno vigliacco.
“Forza”: essere meno debole. E così via.
Procedevamo in piena estasi poetica nell’umida penombra, quando un branco di cani inferociti si slanciò contro di noi emettendo terribili latrati.

Per non so quale ispirazione divina, a Lihn venne in mente di mettersi a latrare con maggior ferocia dei cani, mentre galoppava a perdifiato.

In un batter d’occhio da inseguito diventammo inseguitori.

Quell’avventura ci aveva fatto capire che identificandoci con le difficoltà potevamo renderle nostre alleate. Non bisogna opporre resistenza né fuggire dal problema ma entrare in esso, fare parte di esso, usarlo come elemento di liberazione.
L’atto poetico doveva essere sempre positivo, cercare la costruzione, non la distruzione.
L’errore è lecito se viene commesso una volta sola e con lo scopo sincero della ricerca della conoscenza.
Non si può guarire nessuno, si può soltanto insegnare a guarirsi da soli.
Il teatro come religione
… mi ero reso conto che il bambino non muore mai: ogni essere umano, se non ha portato a termine un certo lavoro spirituale, è un bambino travestito da adulto. E’ meraviglioso essere bambini quando si è bambini ed è terribile che in tenera età qualcuno ci obblighi a comportarci da adulti. E’ terribile anche essere bambini quando si è adulti. Maturare significa mettere il bambino al suo posto, lasciarlo vivere dentro di noi non come un comandante ma come un seguace. Lui ci apporta lo stupore quotidiano, la purezza nelle intenzioni, il gioco rigeneratore, ma non deve mai convertirsi in tiranno.
Più tardi compresi che tutte le malattie, perfino le più crudeli, erano un genere di spettacolo. Alla base c’era la protesta per una carenza affettiva e per il divieto di pronunciare qualunque parola o fare un gesto che rivelasse tale mancanza. Il non detto, il non espresso, il segreto, poteva addirittura trasformarsi in malattia. L’animo infantile, soffocato dai divieti, elimina le difese organiche per consentire l’ingresso al male, perché soltanto così avrà l’opportunità di esprimere la propria desolazione. La malattia è una metafora. E’ la protesta di un bambino trasformata in rappresentazione.
Ogni atto straordinario abbatte i muri della ragione. Distrugge la scala dei valori e costringe lo spettatore a giudicare da solo. Agisce come uno specchio: ciascuno si vede con i propri limiti. Eppure questi limiti, manifestandosi, possono suscitare un’improvvisa presa di coscienza. “Il mondo è come penso che sia. I mie mali derivano da una visione distorta. Se voglio guarire, non è il mondo che devo cercare di cambiare ma l’opinione che ho di esso”.
I miracoli sono paragonabili alle pietre: si trovano ovunque e offrono la loro bellezza, ma nessuno ne riconosce il valore. Viviamo in una realtà dove abbondano i prodigi, ma li vedono soltanto coloro che hanno sviluppato le proprie percezioni. Senza tale sensibilità tutto è banale, l’evento meraviglioso viene chiamato casualità e si cammina per il mondo senza avere in tasca quella chiave che si chiama gratitudine. Quando si verifica un fatto straordinario lo consideriamo un fenomeno naturale di cui approfittare come parassiti, senza dare niente in cambio. Invece il miracolo richiede uno scambio: ciò che i è stato dato devo farlo fruttificare per gli altri. Se non viviamo uniti agli altri non possiamo captare il portento. I miracoli non li provoca nessuno, vengono scoperti. Quando colui che credeva di essere cieco si toglie gli occhiali scuri, vede la luce. Questa oscurità è il carcere della ragione.
La finalità dell’arte è curare. Se l’arte non fa guarire, non è vera arte.
La realizzazione artistica era il risultato di scelte dettate dalla passione. Ci veniva offerta una torta: noi dovevamo soltanto vederla, prenderne una porzione e mangiarla. Era il biscotto di Alice: mangiandolo, o cresceva o rimpiccioliva. Così era la vita, l’arte, una faccenda di punti di vista e di scelte. E lo stesso succedeva anche in negativo. Lo spirito di autodistruzione offriva all’individuo un menù con tutte le malattie fisiche e mentali. L’individuo sceglieva il proprio male. Per curarlo, bisognava indagare su che cosa lo avesse spinto a scegliere quel problema e non un altro.
Ci sono mille modi per rompere un vaso, ma soltanto uno per costruirlo!
Ogni religione ha i suoi santi.

Le religioni si erano appropriate della santità. Essere santo significava rispettare i dogmi. Che cosa restava a noi che non avevamo nessuna bandiera teologica?
Quando vediamo lavorare sulla pista bellissimi cavalli, elefanti, cani, uccelli e ogni genere di animali feroci, comprendiamo che la coscienza non può domare la nostra bestialità attraverso la repressione ma dandole l’opportunità di compiere atti sublimi.
Dei dieci comandamenti
Uno soltanto fa per me:
essere libero come i venti
ma con la radice qui dov’è.
“Amico, ascolta, te lo dice uno che in un momento difficile ha perduto tutto e poi si è reso conto che grazie al dolore aveva trovato se stesso: non lasciarti spaventare da una falsa concezione del denaro. Guadagnalo sempre con attività che ti procurino piacere.
Flores insegnava loro che anche un uomo del popolo, nato in un’umile casa, poteva comportarsi come un principe.
Non siamo alla ricerca della perfezione ma dell’efficacia.
… il corpo di un attore inizia nel suo cuore, si estende al di là della pelle e finisce con le pareti del teatro.
“Lo stupido, quando non sa, crede di sapere. Il saggio, quando non sa, sa di non sapere. Ma quando il saggio sa, sa di sapere. Invece lo stupido quando sa, non sa di sapere”.
“La vita è una strada grigia: niente è mai del tutto cattivo, niente è mai del tutto buono” era un’altra delle sue frasi.
Ho scelto un nome che avesse quindici lettere perché è il numero della carta dei tarocchi: “Il Diavolo”, un potente simbolo della creatività. Il diavolo è il primo attore del dramma cosmico: imita Dio. Noi attori non siamo dèi ma diavoli.

Con il passare degli anni capii che il nome e il cognome racchiudono programmi mentali che sono come semi, da essi possono germogliare alberi da frutto o piante velenose.
Mi venne in mente una favola di Esopo: Arriva un moscerino e si posa sull’orecchio di un bue. Esclama: “sono arrivato!”. Il bue continua ad arare. Dopo un po’ il moscerino decide di andarsene. Esclama:”Me ne vado!”. Il bue continua ad arare.
Allora mi sono proposto di formare una compagnia di teatro muto, quindi ho iniziato a studiare il corpo, il suo rapporto con lo spazio e il modo con cui esprime le emozioni. Ho scoperto che tutte quante partivano dalla posizione fetale, la depressione intensa, l’autodifesa portata all’estremo, la fuga dal mondo, per arrivare a quello che chiamavo “l’euforico crocifisso”, la gioia di vivere espressa con il busto eretto e le braccia spalancate, come a voler abbracciare l’infinito. Fra queste due posizioni si svolgeva tutta la gamma delle emozioni umane, così come tra una bocca ermeticamente chiusa e una bocca spalancata al massimo si collocava tutto il linguaggio umano; così come tra una mano chiusa e una mano aperta si andava dall’egoismo alla generosità, dalla difesa all’abbandono. Il corpo era un libro vivo. Nel lato destro si esprimevano i legami con il padre e i suoi antenati. Nel lato sinistro i legami con la madre. Nei piedi c’era l’infanzia. Nelle ginocchia, l’espressione carismatica della sessualità virile. Nei fianchi, l’espressione del desiderio femminile. Nella nuca, la volontà. Nel mento, la vanità. Nell’inguine, il coraggio o la paura. Nel plesso solare, la gioia o la tristezza …
Scoprii che il rancore era un vincolo forte come l’amore.

Pubblicato da Tizianando a 19:39

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